Chiese
Santuario di Maria Ss. Incoronata
Parrocchia della Sacra Famiglia
Chiesa del Rosario
Chiesa della Madonna degli Angeli
Chiesa Santa Maria delle Grazie (Villa Comunale)
Chiesa di Sant' Antonio
Chiesa di San Martino e Santa Lucia (Chiesa Madre)
Il Convento dei Cappuccini nella Villa Comunale
Nelle pagine del vocabolario di Apricena dell’autore Lombardi leggo che la vecchia chiesetta di S. Antonio, annessa al convento, ridotta in miserevoli condizioni, è stata sostituita da una nuova in tempi recenti. Pare che anche per lo stesso convento, ormai decrepito, inservibile e vecchio, sia giunto il tempo di essere demolito.
Certo: tutto quello che è vecchio si abbatte, va al macero, si sostituisce col nuovo perché non è più di alcuna utilità, non serve più alle esigenze collettive e alle pretese della nuova generazione, magari necessita di ulteriori inutili spese per il suo inservibile mantenimento.
Cosa ci sta a fare un rudere quando il suo posto si può rinnovare con le possibilità del benessere in cui ora viviamo? Si possono
sostituire con strutture moderne di richiamo e di interesse comune: un fast-food, una pizzeria, un locale di divertimenti oppure un bel ristorante che potrebbe conciliare tutti, giovani ed adulti, nel centro della villa: sarebbe un richiamo godereccio, giornaliero e festivo, per i paesani e anche per i forestieri.
Alla stessa conclusione è giunto l’articolo sul convento in cui è stato proposta una fruizione nuova, trasformandolo in un luogo di ritrovo oppure in una oasi religiosa.
Prima, nei miei tempi e ancora più indietro, quando le esigenze e le possibilità erano modeste (o nulle) ci si contentava di piccole e sacre cose: andare alla Messa nella chiesetta della villa, ricrearsi e riposarsi sulle panchine (della villa), avere un convento che funzionava: al posto dei frati Cappuccini, che l’avevano fondato, c’erano le suore laboriose che si prodigavano in tante utili attività: badavano ai bambini dell’asilo (ora scuola materna) e agli scolari della scuola elementare, gestivano laboratori di cucito e di ricamo per le giovinette - pure io li frequentai -, assistevano i vecchi abbandonati che ospitavano con tanta dedizione nei locali prospicienti il campo sportivo.
Pare che ora nel Convento sia rimasta solo una suora, non so come viva e quale incombenza le competa, ma sarà costretta a cambiar convento se il suo, in cui ora vive, dovrà essere abbattuto.
Nelle pagine del vocabolario di Apricena dell’autore Lombardi leggo che la vecchia chiesetta di S. Antonio, annessa al convento, ridotta in miserevoli condizioni, è stata sostituita da una nuova in tempi recenti. Pare che anche per lo stesso convento, ormai decrepito, inservibile e vecchio, sia giunto il tempo di essere demolito.
Certo: tutto quello che è vecchio si abbatte, va al macero, si sostituisce col nuovo perché non è più di alcuna utilità, non serve più alle esigenze collettive e alle pretese della nuova generazione, magari necessita di ulteriori inutili spese per il suo inservibile mantenimento.
Cosa ci sta a fare un rudere quando il suo posto si può rinnovare con le possibilità del benessere in cui ora viviamo? Si possono
sostituire con strutture moderne di richiamo e di interesse comune: un fast-food, una pizzeria, un locale di divertimenti oppure un bel ristorante che potrebbe conciliare tutti, giovani ed adulti, nel centro della villa: sarebbe un richiamo godereccio, giornaliero e festivo, per i paesani e anche per i forestieri.
Alla stessa conclusione è giunto l’articolo sul convento in cui è stato proposta una fruizione nuova, trasformandolo in un luogo di ritrovo oppure in una oasi religiosa.
Prima, nei miei tempi e ancora più indietro, quando le esigenze e le possibilità erano modeste (o nulle) ci si contentava di piccole e sacre cose: andare alla Messa nella chiesetta della villa, ricrearsi e riposarsi sulle panchine (della villa), avere un convento che funzionava: al posto dei frati Cappuccini, che l’avevano fondato, c’erano le suore laboriose che si prodigavano in tante utili attività: badavano ai bambini dell’asilo (ora scuola materna) e agli scolari della scuola elementare, gestivano laboratori di cucito e di ricamo per le giovinette - pure io li frequentai -, assistevano i vecchi abbandonati che ospitavano con tanta dedizione nei locali prospicienti il campo sportivo.
Pare che ora nel Convento sia rimasta solo una suora, non so come viva e quale incombenza le competa, ma sarà costretta a cambiar convento se il suo, in cui ora vive, dovrà essere abbattuto.
Addio, piccola suora superstite, conoscerai com’è triste emigrare!
Torno ai miei ricordi, quando frequentavo il convento e la villa.
Lo rivedo come era allora e come mio fratello Benito lo ha ricordato con il suo disegno, pur vivendo lontano da anni. L’episodio che cercherò di raccontare sono le memorie del mio passato e del tempo bello del convento.
Ben a ragione fu coniata la canzoncina che anche il Lombardi ricorda nel suo vocabolario
Mamma mia k mmuina
K è success a la Prucina
K ne poke d’villett
So messe gnoche i giovinett
Hanna lassate la cavzett P vedè i biciclett
Hanna lassat la puntina
P sentì don Vencenzin
In alternativa sapevo:
P sentì la tredicina
Forse era pure quel giovane Sacerdote tornato da Roma (mi pare) a rendere le tredicine attrattive con i suoi messaggi religiosi più consoni alla gioventù che accorreva in massa quando, all’inizio di giugno, e per tredici giorni- fino alla processione - la campanella della Chiesina suonava a distesa nei pomeriggi e richiamava alle funzioni sacre soprattutto le giovinette.
La Chiesa era adorna di gigli, quei fiori bianchi che sempre ornano la statua e le immaginette di S. Antonio, l’odore era penetrante ed insopportabile e le porte della Chiesa gremite restavano aperte.
Alla fine della funzione, con i pomeriggi caldi e l’orario invitante, tutti godevamo a passeggiare nei vialetti della villa, per incontrarci, per chiacchierare, per essere lieti come, forse, solo allora potevamo essere, dimentichi delle difficoltà di quel vivere difficile che ci accomunava.
Il portone adiacente alla Chiesa restava aperto e potevamo incontrare le suore sempre ospitali.
Nell’interno del Convento, a fianco del corridoio che portava ai locali del pianterreno adibiti a scuole funzionanti (e all’asilo), c’era un porticato col chiostro e al centro una fontana. Al piano superiore c’erano le camere delle Suore e i laboratori. Uscendo dal portone, sul lato d’ingresso della villa, sulla destra, c’era la casa del custode-giardiniere, quello del mio tempo era Fonso.
La parte più lunga del Convento, sul lato destro, era adibita a scuola pubblica. Mio fratello Donato la frequentò col maestro Collina, quando io non ero ancora scolara. Insieme a mia nonna andavamo a riprendere la mamma quando usciva. Ricordo con emozione che il maestro e Donato, quando mi vedevano, mi prendevano per mano e mi facevano fare il girotondo intorno alla rotonda. Io mi sentivo felice e partecipe di quelle attenzioni, senz’altro dovute al mio aspetto timido e fragile: forse erano un presentimento della mia futura attività scolastica.
In seguito, durante il periodo bellico, quelle aule furono adibite a refettori, quando fu organizzata una colonia per i figli dei combattenti, nel 1942-43.
Io partecipai come vigilatrice e nella mia squadra inserii i miei due fratelli. Le panche esterne con i tavoli servivano per mangiare, a colazione, pranzo e merenda ed anche per riposarsi dopo i vari giochi ludici che impegnavano le squadre. Tutta la villa pullulava di bambini gioiosi, dimentichi della fame che vivevano in famiglia.
Mi stupivo ogni giorno come gli organizzatori della colonia sapessero reperire i cibi rari in quel tempo di tessere annonarie, di autarchia e di fame collettiva.
Quando venivano le mamme a portare - la mattina- e a riprendere i figli nel pomeriggio inoltrato partecipavano alla cerimonia dell’alzabandiera e cantavamo insieme, quasi dimentichi delle notizie tristi che si diffondevano. Il disegno di mio fratello ricorda un episodio di quei giorni: era il 19 agosto 1943. Mentre i bambini sostavano sulle panche, nella pineta, nella siesta del pomeriggio, rombi paurosi in lontananza diedero l’allarme e subito una squadriglia di aerei oscurò il cielo. Fu un fuggi-fuggi: proprio io diedi il cattivo esempio, presi per mano i miei fratelli e cominciai a scappare fuori dalla Villa e in via Roma, seguita da tutti i bambini, che correndo con gli zoccoli, forniti dalla colonia, facevano un frastuono che si confondeva con i rombi degli aerei. Fu il terrore del momento a farmi scappare verso casa, dove avrei trovato rifugio (pensiero postumo). Ci venne incontro il segretario politico (che aveva organizzato la colonia): “Disgraziati”, ci disse, “quelli vi vedono da lassù e possono mitragliarvi!”. Ritornammo tutti e ci rifugiammo nella Chiesa e mai come in quel momento la preghiera a S. Antonio che ci proteggesse fu più accorata. Sentimmo le bombe che cadevano in lontananza. Dopo sapemmo che avevano bombardato e mitragliato un treno, in sosta nella stazione di Foggia, carico di materiale infiammabile, che era penetrato nel sottopassaggio, dove si erano rifugiati tanti passeggeri che erano restati intrappolati e bruciati. Quando risentimmo la squadriglia ritornare dopo aver compiuto la missione tragica, uscimmo dalla Chiesa e sulla “montagnella” vedemmo le fiamme che ancora si elevavano alte. Sentivamo il crepitio e l’odore dell’arso oltre i monti del Gargano. Ricordavo l’incendio di Roma con Nerone che cantava al suono della cetra: “Uomini lupi di tutti i tempi, che compiono stermini e morti agli ordini di Caino sempre vivo nelle varie epoche“
C’è ancora quella montagnella con gli scalini sconnessi riposo dei vecchietti di giorno e delle coppie di sera?
Leggo sul vocabolario che nella villa sono spariti il Chiosco e la rotonda: allora compravamo solo gassose e sulle rotonde i bambini si divertivano con i loro giochini. Nella parte opposta all’ingresso del Convento c’erano i locali che ospitavano i vecchi.
Conoscevo zì Ntonio, un vecchietto poeta che prima percorreva le strade del paese dispensando rime sue, composte al momento. Non dimentico l’ala della Villa che è ancora parco della Rimembranza, con gli alberi ormai vecchi dedicati ai morti delle varie guerre mondiali.
Sicuramente tutto è cambiato nella Villa dei miei ricordi e fra poco anche il Convento farà parte del mio passato. Forse non ci sono più quei vialetti e quelle panchine dove io e le mie amiche di gioventù ci incontravamo e ci sedevamo per cantare, specie nelle belle serate estive, al suono della fisarmonica di una apricenese che tornava da Roma. Cantavamo Lilì Marlene, la canzone di quel tempo che parlava di guerra, di amori infranti, di nostalgia e di ricordi. Molti che passeggiavano si univano a noi, a cantare per dimenticare, per incoraggiarsi a sperare.
Così vivevamo la nostra giovinezza
Addio, dunque, al Convento.
Tutto diventa rudere e ricordo. Bisogna aggiornare e dare vita nuova anche ai luoghi dei nostri ricordi.
di Maria Goffredo Milone
Appello Accorato
Carissima signora Maria,
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